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SEMINAIRE SUR LA CULTURE  (5/12)
Institut Consulaire Euroméditerranéen de Formation - Ajaccio
12/05/2000
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Elie CRISTIANI

J'ai vu tout à l'heure, sur l'un des premiers panneaux qui défilaient, l'histoire de la pomme et de la figue. Quand j'entends le mot magnifique, j'entends toujours manger les figues, et je me dis que c'est sans doute çà qui a du influencer Toni mais qu'en réalité cette analogie me paraît impossible dans la mesure où toutes les pommes sont des fruits et toutes les figues sont des fleurs et que la figue n'est pas un processus de fin, la figue c'est la première étape qui va donner un fruit et que dans ce sens là l'analogie est impossible. Je vais revenir plus directement à ma question sur le concept identitaire et la culture ; il n'y a pas beaucoup de créateurs et c'est peut-être une des questions auxquelles il faudrait répondre. Le concept identitaire, aujourd'hui, mis sur le plan du faire, c'est à dire de l'économie, sur le plan du dire, de la création, dans l'écriture, la parole, la langue... est sans doute la réponse à une situation douloureuse, une fin de siècle difficile où après les guerres, les meurtrissures, tous les effets de toutes les colonisations, toutes les déchirures, les souffrances qui est cette revendication identitaire qui soit portée en avant, qui soit forte, qui soit mise au temps présent, me paraît à la fois la réponse évidente puisque des gens, et Toni en a une grande responsabilité l'ont mise dans l'actualité, dans le politique, dans la culture, dans l'économie, est-ce que cette préméditation identitaire dans les actes qui fondent la culture, c'est à dire les actes de la création, est-ce qu'elle n'est pas en soi la fin de quelque chose qui est une véritable dynamique dans la création ? Je m'explique : toutes les identités se font sans préméditation. Lorsque les colons génois fabriquent des tours, cette architecture scatologique, ils sont des envahisseurs et lorsque, à Paris, I Muvrini la proclament comme notre image, est-ce que au moment de la fabrication de la tour génoise c'est un acte identitaire, est-ce que, aujourd'hui çà ne fait pas partie de notre identité ? Est-ce que les actes de la création peuvent avoir la préméditation identitaire, est-ce qu'en soit cette préméditation n'est pas la voie, en tout cas dans la durée, la plus dangereuse, pour qu'un pays puisse exister en étant seulement ? Être quelque chose ce n'est pas seulement être, c'est l'engagement de toutes les incertitudes, de tous les dangers, de toutes les richesses. Être quelque chose c'est s'empêcher d'être, et d'avoir insisté, d'avoir fait ce drapeau identitaire, de l'avoir mis au présent alors que c'est un instrument d'intérêt évident dans l'ethnologie, dans le travail scientifique, dans la linguistique au niveau de l'étude çà me paraît important mais quand on met ce mot au présent çà me paraît extrêmement dangereux. Ma question : est-ce que la proclamation de l'identité ne met pas en danger l'identité ?

T. CASALONGA

J'ai failli dire : c'est une bonne question mais je ne l'ai pas dit. En fait c'est la vraie question et je dirai même c'est plus qu'une question c'est la véritable objection. Mais c'est une objection fallacieuse en ce sens qu'elle exclut les retournements. Je reprends l'exemple que tu as donné des tours génoises : quand les Génois ont construit les tours génoises, c'était l'expression même de l'identité visible du pouvoir génois sur la Corse ; ils n'ont pas construit pour autre chose : c'était donc une identité au présent. Aujourd'hui c'est devenu, après renversement, notre identité, c'est à dire que nous avons réussi à récupérer ce signe et en faire le signe qui exprime notre capacité à nous défendre des envahisseurs. Cela signifie que l'identité est en permanence fabriquée par la vie et par la relation que le pouvoir inscrit dans l'histoire des sociétés. Alors, non seulement l'identité n'est pas un piège au présent mais l'identité ne peut exister qu 'au présent car le même signe change de sens parce que le présent est devenu le passé et que ce qui est présent aujourd'hui c'est le sens que l'on donne aujourd'hui.

Ma réponse à ton objection est qu'elle pourrait être retenue si elle n'était pas en permanence démentie par les faits et pardonne-moi de t'avoir répondu si violemment et au fait que ta question était si belle qu'elle est presque magnifique.

ESTUDIANTINA AJACCIENNE

Plus on partage la culture plus elle augmente, elle s'agrandit. Ce n'est pas comme sparta u pani, quandu ùn ci hè più pani ùn ci hè più spartu.

INTERVENTION DE ANTONIO CABIDDU DU TEATRO DI SARDEGNA

Io vi devo due scuse : la prima perchè non parlo francese, la seconda perchè l'argomento che mi vede nel programma, come relatore per gli aspetti della cultura di una regione insulare. Per me e un aspetto troppo vasto e non è della mia competenza. Io molto più modestamente vodrei fornire una testimonianza, una testimonianza di una sperienza concreta in un settore limitato e particolare come quello del teatro. Io credo tuttavia che siamo perfettamente nel tema, nel senso che la relazione tra identita e cultura attraverso il teatro noi l'abbiamo potuta sperimentare in circa trenta anni di attività. Voglio subito dire che il nostro modo di fare il teatro è ancora –uso qui una parola fuor di modo- è un teatro militante, cioè un teatro che si impegna a esprimere attraverso questa forma d'arte una passione, una necessità di fare il teatro. Ma credo che questo appartenga un poco à tutti gli artisti. Non si può essere artista senza passione, non può essere artista senza una grande personalità. Intendo che un artista non produce per fare delle merce per comercializzare delle merce. Vorrei portare la nostra sperienza alla vostra attenzione, come percorso di un piccolo gruppo e amatore di teatro che negli primi anni settanta, dopo à sissantottu faceva teatro universitario. Poi attraverso tutta una seria di mutazione di variazione nel proprio organizzarsi e nel proprio approccio professionale del teatro hanno poi portato, diciamo la loro opera nella capitale, à Roma, per esempio l'anno scorso alla presenza di Harold Pinter « Ritorno à casa ». Questo non per raccontare una sperienza, per dire rimanendo il tema del convenio, come questo sia possibile in una piccola regione marginale insulare fuori dai circuiti nazionali italiani. Allora io credo che la risposta sia piuttosto simplice : questo è possibile rimanendo fedele à se stesse ; questo è, diciamo, il piccolo segreto, credo che appartenga à tutti gli artisti che si occupano di arte e di communicazioni in tutto il mondo. Infatti insieme a questo teatro che noi esportiamo in giro per l'Italia noi continuamo molto testardamente à perseguire una linea di teatro mediterraneo cosi detta. L'ultima produzione, per citare un esempio, è un titolo che viene da una storia vera che appartiene alla Sardegna di prima al nuovecento e che tratta delle faide, delle lotte, delle vendette tra famiglie che è un problema molto tipico dell'aria del mediterraneo. allora noi abbiamo di fronte un tema importantissimo che però non volevamo trattare come un banale racconto ma volevamo dare una dimensione più universale. Abbiamo pensato che per fare questo lavoro occoreva inserire nel nostro gruppo uno sguardo più distante, più distaccato e anche con una grande sperienza di teatro e come il regista greco Teodor Terzopulos. Ma a parte gli aspetti molto vari al mio giudizio la cosa straordinaria è che noi abbiamo potuto rappresentare sotto forma di tragedia greca e anche come un elemento universale tra la pace e la guerra, la scelta tra la pace e la guerra un piccolo episodio diciamo di cultura locale chi quindi hà assunto un significato universale e questo a toccato la sensibilità profonda della nostra popolazione. dunque il teatro come ponte attraverso il quale rinodare nel profondo dell' intimo quelle che sono le radici culturali, cioè i valori in cui tutti quanti la cumunità si riconosce,ecco questo è secondo noi uno dei possibili roli culturali del fare il teatro.

L'arte del teatro ma come tutte le altre arti ci può mostrare una via per incontrare la gente per ritrovare quella indentità perduta che ovviamente non è folclore non è nostalgia non è adeguamento diciamo alle mode. E questo è possibile se l'attegiamento dei registi, degli attori insoma di tutti quelli che collaborano in generale degli artisti è rivolto à una ricerca continua cioè non a quello che è una produzione costante, tradizionale. l'artista è artista in quanto continuo ricercatore. Infatti l'artista sà di non sapere. È quello che insegue sogni, e quello che continuamente non è sodisfatto dalla propria opera perchè continuamente nel momento in cui rializa una intuizione cerca di trovare criticamente quello che non funziona quello che non va. Ma qua si pone un altro problema : come inserire l'artisti, le forme artistiche, in particolare il teatro nella società come fare il teatro per la società. È chiaro che è necessario avere alle spalle un progetto che magari gli artisti contribuiscano a formare e a pensare. Però il progetto deve avere una struttura a maglie larghe, deve lasciare libertà agli artisti, allo stesso tempo deve tracciare la possibilità di fare e di operare. Il concetto di lasciare una struttura che poi consenta agli artisti di riempire di contenuto le tracce. Nel nostro lavoro il teatro del Mediterraneo è una traccia sicura, una bussola attraverso laquale manmano si riempie di contenuto. cioè questo per dire anche qualche intervento di cui parlavo, la programmazione infatti finisce per ammazzare l'arte, finisce per distruggere quello che si cerca di lasciare libero. Se la libertà degli artisti è propositiva e culturale rimane sempre un' autentica libertà non condizionata dal potere politico, dal potere economico. Io credo che all'interno si trovano gli equilibri necessari per proggetare nuove esperienze, nuove forme artistiche. E quà viene un altro aspetto molto importante di come, per esempio, noi viviamo la condizione in Sardegna che è una regione autonoma e che senza legge ci hà consentito crescere molto ; senza legge stringente soffocante che impongono tutto quello che deve fare. Noi abbiamo una lege del 1950 che lascia piena libertà à l'evoluzione del nostro lavoro. Adesso noi ci troviamo da fronte à un problema che penso che sia anche quello della Corsica, cioè quello di fare un altro salto di qualità, perchè è quella di una piccola realtà come quella del teatro di Sardegna. Per potere essere erede della società uno hà bisogno di strutture hà bisogno di istituzioni hà bisogno anche di una formalizazione più precisa più istituziunale. Ed ecco qui la battaglia trà l'istituzione e la militanza degli artisti. È un matrimonio difficile perchè in questo matrimonio ciascuno deve cedere qualcosa, ùn rinnunciando a l'anima ma cercando di adattarse à le nuove regole. Occorre molto equilibrio e molta intelligenza politica per realizzare nella pratica un' istituzione che non si fossilizze che non faccia da museo, che sia sempre attiva sempre propositiva. Io posso dire che è una impresa che non abbiamo ancora superato, dove i nostri politici sono molto tentati da perseguire le solite vie della polverizzazione. cioè il molto che fa premio sulla qualità e sulle scelte diciamo decise verso lo sviluppo perchè questa è un' azione di governo e di politica di sviluppo. Bene, io credo cosi di avervi raccontato una piccola flash di esperienza ; noi con gli amici della Corsica abbiamo fatto diverse sperienze anche comuni, abbiamo realizzato spettacoli insieme, siamo andati insieme in Croazia per seguire Odisseo per seguire Ulisse ;questo teatro era una proposta comuna con la Corsica che hà preparato un suo spettacolo con la Sardegna e la Croazia, si sono confrontate su un testo di Cesare Pavese. per concludere io vorrei dire che, poichè anche in Corsica ci è fortissima la necessità di salvare la propria identità, la propria cultura, la propria lingua, io credo appunto che il primo commandamento è di non rinonciare alla propria verità, la propria ricerca, alla propria autenticità. E allo stesso tempo io credo che sia molto profitto, in questo, l'Europa, la Comunità ci può aiutare moltissimo lo scambio di sperienze perchè, a me personalmente, il nostro teatro di Sardegna hà consentito di conoscere tanta gente in tutto el baccino del Mediterraneo e hà consentito di crescere culturalmente, di sperimentare nuove forme di teatro come questo che abbiamo fatto con Terzopulos ma sostanzialmente di avere uno sguardo, diciamo più ampio, sneza perdere la nostra identità. Spero che le relazioni ottime che abbiamo con molti amici della Corsica proseguino nel sperimentare appunto delle forme di collaborazione nel prossimo futuro. Grazie.

Pt du CESC

Avant de donner la parole dans la salle, j'ai retenu notamment une phrase de Monsieur Cabiddu : il fallait beaucoup d'intelligence politique pour ne pas fossiliser la culture. Et j'en profite pour remercier tous les politiques, y compris le Président de l'Assemblée de Corse, qui viennent nous voir au cours de ce séminaire ; cela prouve bien qu'il veulent s'imprégner de la société civile. Qu'ils soient remerciés, par avance, de leur collaboration.

J.P.BONNAFOUX (Aumônier de l'Université de Corse)

Tout à l'heure, Toni, tu as parlé de porte, la culture comme une porte. Malheureusement, dans nos villages, on voit plusieurs portes, beaucoup de portes et elles sont fermées. Et, j'ai l'impression que, à l'heure actuelle, on peut avoir une vision enthousiaste de la culture comme une porte, mais on peut se rendre compte aussi qu'il y a beaucoup de sous- groupes, que notre société corse –comme la société européenne- est éclatée en de nombreux sous-groupes qui ont des difficultés à communiquer entre eux. Chaque sous-groupe a besoin d'être enfermé en lui-même parce qu'il a peur, il a peur de l'autre, il n'a pas une langue pour communiquer avec l'autre. Alors nous avons les jeunes agriculteurs d'un côté, les retraités de l'autre, mais une multiplicité de petits sous-groupes qui ont chacun leur culture mais qui ferment peut-être la porte parce que on ne sait pas ce qui va se passer dehors et parce qu'on n'a pas les moyens de franchir cette porte. Je dirai que, dans la culture même, on a fermé les portes au fur et à mesure. On a montré, à nos anciens, la culture française comme quelque chose d'inouï et, peut-être que l'on dévalorisait complètement la culture corse. On leur a fermé une porte tout en leur en montrant une autre. Mais il y a eu en eux quelque chose qui s'est passé. Ensuite on leur a dit : il n'y a que la culture corse qui est importante, et, on a peut- être contribué, sans le vouloir, à dévaloriser une autre forme de culture, celle des écoles... Et maintenant, on se retrouve avec la culture américaine ou la culture d'INTERNET, et sans le dire ouvertement, d'une manière implicite on laisse entendre qu'une culture renie l'autre. Pour moi, le vrai problème, c'est de savoir comment ouvrir les portes et comment le CESC, l'ensemble de la société ne vont pas rester enfermés dans des sous-groupes. Des places vides, des maisons fermées sont la réalité que je vis, suis-je trop pessimiste ?

T.CASALONGA

Si les portes restent souvent fermées dans les villages, je crois qu'il faut en chercher la cause dans toute une série d'évènements qui font partie du passé sur lequel nous devons réfléchir en nous disant que toutes les portes qui ont été fermées n'étaient pas forcément des portes qui devaient rester ouvertes. Nous sommes bien conscients que la vie était très dure autrefois et qu' il est bon qu'elle se soit adoucie. Donc ne rêvons pas d'un âge d'or qui aurait été celui que nous ne connaissons plus et où nous voudrions retourner. La plupart des gens qui ont connu cette vie dure et difficile ont la terreur qu'elle ne revienne. Ne faisons pas du passé et de ces portes ouvertes sur la misère et sur des journées de travail – pour ne citer que cela - énormes, ne faisons pas de ces portes ouvertes un mythe. Aujourd'hui les portes se sont fermées sur ces difficultés là, ce sont-elles ouvertes sur autre chose ? C'est tout le pari de la modernité. Mais, est-on obligé de ne pas être soi-même pour être de son temps – comme vient de le dire Antonio Cabiddu ?

Le fait donc que, physiquement il y ait des portes fermées parce que les maisons sont vides, d'autre part que des portes se soient fermées sur des groupes qui vivent cet enfermement comme une protection, c'est l'image d'une nouvelle angoisse ; nous n'avons plus l'image de la faim, et encore ! Nous n'avons plus l'angoisse de mourir de froid, sous les coups des envahisseurs, nous avons aujourd'hui une nouvelle angoisse qui est existentielle et matérielle qui explique que nous fermons les portes ? N'oublions pas que celui qui a inventé la porte lui a permis à la fois de s'ouvrir et de se fermer, là est le génie de cette invention ; elle peut même être entr'ouverte, c'est à dire qu'elle peut laisser passer le courant d'air sans laisser passer l'ouragan ; elle peut empêcher les êtres nuisibles de rentrer et s'ouvrir à ceux que l'on souhaite accueillir. Donc je répondrai à ta question de savoir si tu es optimiste ou pessimiste en citant Georges Bernanos « un optimiste est un imbécile heureux et un pessimiste est un imbécile malheureux ».